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Balconi Chiusi

E’ sera, una delle tante senza cena da alcuni mesi a questa parte. Non certo per essere martiri, ma perché costretti da orari di lavoro, di famiglia. Perché no, di studio.
La sala adibita a covo di assemblee è una coltre di fumo, ma così va bene. Dickens già molti anni fa parlava delle classi subalterne lacerate dal fumo e dall’alcol pessimo. London, the fog si raccontava. Anche se qui di Londra c’è ben poco: qui c’è Boscoreale, Boscotrecase. E lontani anni luce i cittadini di Pompei, avvolti in una coltre di illusorio benessere. Illusorio, appunto.
Ormai già da un bel po’ non si chiacchiera più, si discute. Con forza, con piglio deciso. Si discute anche in silenzio, come una sorta di disappunto da non tirar fuori per non abbattersi, o almeno non farlo in pubblico.
Si parla di rifiuti, di aria irrespirabile. Di terreni, i nostri, deturpati e del nostro corpo martoriato di sponda. Si parla di Maria Pia, e come lei chissà quante altre, venuta a mancare per un tumore. Di Maria Pia, domiciliata fino a sei mesi fa ad un chilometro da una cava, una delle tante discariche, che da decenni coltiva i terreni dell’area vesuviana mescolando scarti con la chimica abbandonata dai pochi padroni.
Si parla delle passate occupazioni, si parla del futuro.
Ed io sto zitto. Penso ai cortei degli ultimi mesi, penso all’occupazione della scorsa settimana. Ad un certo istante abbiamo raggiunto anche le 50 persone. Solo Boscoreale conta cinquantamila abitanti.
La notte di quell’occupazione bastava uscire fuori dalla sala, alle 4 di notte in pieno centro, per sentire la gola stringersi, gli occhi arrossarsi e quel poco di cibo con cui avevamo cenato mettersi a salire su e giù fra lo stomaco ed il cuore. Chissà fin quando i nostri polmoni avranno voglia di sopportare tutto ciò che respirano notte e giorno. Camminare per Boscoreale equivale un po’ a morire, di notte così come di giorno. Ma non è la puzza, non è il sottosuolo inquinato. Non è tutto ciò a farci morire. E’ la gente, sono i balconi chiusi. E’ il silenzio, quello si, assordante. E’ lo sdegno, è il favore all’amministratore invece del diritto, a lacerarti. E’ la vita che resta chiusa in ogni loculo a cui è stato assegnato un numero civico.
Siamo rimasti in venti ad occupare il comune, al massimo ci hanno dato una pacca sulla spalla. Ed io non c’ero nemmeno perché alle 5 sono andato via per prendere il treno.
Domani. Quanti saremo? Mille? Cento? Dieci. Ma ne moriranno molti di più. Il corpo si ammala senza guardare il portafoglio. Solo le coscienze, quelle si, potrebbero abbassare lo sguardo.
Andiamo, proviamo. Lottiamo. SI, in dieci. Sempre in dieci. Lottiamo ed il lavoro svanisce, così come i libri ormai pieni di polvere – questi in primis a causa re cap e merd e poi delle lotte – lottiamo ma ad ora di cena lottiamo un po’ in meno. E poi … lottare… basterebbe iniziare a parlare. Il solito Aldo Masullo parlava di collettività, ma qui la collettività non c’è. C’è solo l’individuo. E l’individuo è destinato a morire. Ed in dieci, forse in venti, dovremmo continuare a mettere in discussione il nostro tempo e la nostra libertà personale, la nostra integrità fisica?
Fra di noi ci diciamo sorridendo di dover resistere un giorno in più di loro. Ma i ‘loro’ non sono più solo e soltanto i padroni, i dirigenti, le logge. Loro sono in tanti: le bocche chiuse, i balconi chiusi. O ball re pezzient, se almeno ballassimo ancora.

Il giovane Alessio


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